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Il caregiver nella malattia oncologica

Quanto è importante il ruolo del caregiver nella malattia in genere e in quella oncologica in particolare?
Il caregiver dimentica di prendersi cura di sé stesso, così coinvolto nella cura dell’altro?
Esistono strumenti di autovalutazione e valutazione utili a definire il carico dei portatori di cura.
Ne parliamo in quest’articolo.

Che cos’è(o chi è) il caregiver nella malattia oncologica?

Il caregiver, termine preso in prestito dall’inglese, è la persona (familiare o amico) che si prende cura del malato sia dal punto di vista pratico-assistenziale sia psicologico.
Gli oneri del caregiver sono dipesi dall’evoluzione della malattia, più questa è avanzata più il portatore di cure è coinvolto, adattando la propria vita a quella dell’altro.
È stimato che il caregiver dedica mediamente 8 ore al giorno nella cura del malato oncologico e nella maggior parte dei casi questa co-dipendenza genera ansia, depressione e insonnia.
Senza pensare alle ripercussioni economiche, dettate dalla perdita di ore di lavoro.
In tal senso molto influiscono le politiche di welfare, per esempio in Italia i permessi per le assenze lavorative legate ai cicli di cure sono estesi ai parenti fino al terzo grado con la legge 104 del 1992.

Il ruolo del caregiver nella malattia oncologica è davvero importante

Caregiver e malattia oncologica: tre macrofasi

Numerosi studi hanno dimostrato come nel percorso di cura della malattia oncologica si distinguano tre fasi, legate ai bisogni del paziente e ai compiti diversificati a seconda del tipo di legame.

La prima fase corrisponde alla diagnosi, con livelli molto alti di ansia sia per il malato che per il caregiver, perché entrambi avvertono il senso di spaesamento emotivo introdotto dal cambiamento, oltre alla paura, costante per tutto il percorso.

La seconda fase è quella della progressione della malattia, il periodo nel quale le terapie incidono sulla salute e l’indipendenza del paziente, coinvolgendo il caregiver, che cerca, nonostante tutto, di mantenere una facciata di vita normale.

La terza fase, invece, può corrispondere a un percorso di guarigione o di accettazione dell’inevitabile, in entrambi i casi il momento è psicologicamente devastante, con il bisogno di supporto di esperti.

Lo stato psicologico del caregiver tende a peggiorare con l’evoluzione del tumore e di fronte alle impellenze relazionali e assistenziali, spesso dimentica di prendersi cura di sé stesso.

I temi in oggetto sono approfonditi in uno studio pubblicato sulla rivista internazionale BMC Palliative Care, a cura della dott.ssa Samantha Serpentini, psicologa clinica dell’unità di Psicologia ospedaliera dell’Istituto Oncologico Veneto – IRCSS insieme con il prof. Thomas Merluzzi della Notre Dame University (IN, USA) e il prof. Vincenzo Calvo dell’Università degli Studi di Padova.
Vediamola nel dettaglio.

Il Caregiving Inventory e gli strumenti di analisi del caregiver

Lo studio è finalizzato a validare in italiano il caregiver inventory, uno strumento psicometrico usato per misurare le capacità di auto-efficacia dei caregiver di malati oncologici.

Nella ricerca sono stati scelti 91 caregiver con un’età compresa tra i 18 e i 90 anni.
Il rapporto familiare con il paziente è per il 50,55% tra coniugi, il 21,98% tra figli e il 14,29% tra genitori.
I tempi della cura vanno dai 2 mesi ai 5 anni.

/Qui abbiamo parlato ampiamente di come il cancro incide sul rapporto di coppia/.


Inoltre, nella maggioranza dei casi il caregiver coabita con il malato, che ha un’età media di 63 anni.
Nel questionario i caregiver indicano anche il tipo di cancro della persona cara: mammella, ovaio e polmone quelli più frequenti.

Il ruolo del caregiver nella malattia oncologica è sempre più incisivo, nonostante non sia preparato e addestrato per molti dei compiti che è chiamato a svolgere.
Amici e parenti devono sviluppare capacità di coping, saper fronteggiare situazioni non indifferenti e ciò ha delle ripercussioni sulla salute fisica e psicologica.

L’autoefficacia del caregiver lo rende il responsabile della comunicazione tra personale sanitario e malato, accrescendo lo stato di ansia e paura.
Dalle risposte è evidente la mancanza di tempo per coltivare le relazioni interpersonali e per occuparsi del proprio benessere e della propria salute, che appaiono poca cosa di fronte al cancro dell’altro.

In conclusione lo studio convalida il Caregiving Inventory come strumento di autoefficacia del caregiver, suggerendo interventi psico-educazionali, che spingano il caregiver a preservare sé stesso e a gestire nel migliore dei modi le situazioni, spesso conflittuali, con la persona malata.


L’aspirina può ridurre il rischio di recidive nel cancro al seno ormonosensibile?

L’aspirina non ha alcun effetto positivo e coadiuvante delle terapie nell’evitare recidive nelle pazienti affette da tumore al seno HER2-.

Questa è la conclusione di un importante trial condotto su circa 3000 malate dal Dana-Farber Cancer Institute Boston, ripreso dall’American Society of Clinical Oncology.

Aspirina e cancro al seno: lo studio

Il clinical trial condotto dagli scienziati del Dana-Faber, con la tecnica del doppio cieco, cioè né le malate né i valutatori erano a conoscenza di ciò che il paziente stesse assumendo, ha analizzato il rischio di recidiva nelle donne affette da cancro al seno Her2-.

Nello studio, le donne sono state divise in due gruppi: metà ha assunto l’aspirina una volta al giorno, mentre l’altro gruppo un medicinale placebo.
Bene, tra i due gruppi non sono emerse differenze statisticamente rilevanti.
Secondo Wendy Y.Chen, autrice della ricerca, l’aspirina non è utile a prevenire le recidive nel cancro al seno.

L’acido acetilsalicidico può essere utilizzato nelle terapie oncologiche?

L’aspirina è oggi prescritta come terapia per determinate categorie patologiche, ictus o infarto per esempio, per la sua capacità di fluidificare il sangue.
Infatti, l’acido acetilsalicidico è una delle molecole più famose impiegate ormai da decenni in medicina proprio per la versatilità delle sue caratteristiche.
L’aspirina è un antipiretico, antiinfiammatorio, analgesico e, come nei casi di ictus o infarto, è un antiaggregante.

Da anni, poi, grazie alle capacità antiinfiammatorie della molecola, l’aspirina è oggetto di studio in campo oncologico.

Diciamo subito che le ricerche sono tante, ma le conclusioni certe, poche.
Nel 2020 un’analisi aggiornata condotta dall’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, ha attestato una riduzione di circa il 25% di cancro al colon-retto, con un effetto proporzionale alla quantità e alla durata della terapia.
L’acido acetilsalicidico è associato anche a una riduzione del cancro all’esofago, stomaco, fegato e pancreas.

Sebbene questi dati facciano pensare a un possibile uso dell’aspirina nella cura contro il cancro, gli esperti raccomandano molta cautela.
Inoltre, sono stati riscontrati effetti collaterali anche gravi, quali emorragie, soprattutto nei pazienti oncologici ultrasettantenni.

Nel latte materno le cellule spia del cancro al seno

All’interno del latte materno, secondo una recente ricerca, si nasconderebbero cellule spia in grado di indicare la probabilità di sviluppare il cancro al seno, oltre a indicare eventuali cambiamenti nella conformazione mammaria.

La ricerca pubblicata sulla nota rivista Nature Communications, è stata condotta dai ricercatori del Wellcome-Mrc Cambridge Stem Cell Institute (Csci) e del dipartimento di farmacologia dell’Università di Cambridge.
Il gruppo di ricercatori ha analizzato campioni di latte materno donato da 7 neo mamme e campioni di tessuto mammario di donne che si erano sottoposte a interventi estetici al seno.
Grazie al sequenziamento delle molecole Rna è stato possibile isolare circa 110mila cellule vitali, da studiare in laboratorio.

Attraverso la loro analisi, è stato possibile osservare le differenze caratterizzanti le cellule in lattazione.
I dati raccolti offrono una finestra sul mondo dell’allattamento e su ciò che avviene nel seno materno durante questa fase della vita.
Inoltre, i dati sono facilmente reperibili.
Fino a questo momento per indagare le cellule del tessuto mammario, la ricerca si è servita, come anticipato, di campioni ottenuti da donne sottopostesi a interventi chirurgici.
Ottenere, invece, campioni da donne durante l’allattamento, per mezzo della biopsia, è più difficile e problematico.

Studiare il latte materno potrebbe aprire nuove strade per indagare la funzione delle ghiandole mammarie e rispondere a domande inerenti la donna, i meccanismi della lattazione e l’origine del tumore al seno.

HER2DX: il test genomico con valore predittivo e prognostico nel cancro al seno HER2+

HER2DX è il test genomico che permette di individuare la terapia migliore per le donne con tumore al seno iniziale con iper espressione della proteina HER2+.

Il test è frutto della collaborazione tra le Università di Padova e Barcellona e alcuni istituti oncologici spagnoli.

 I risultati sono stati pubblicati sulla rivista The Lancet eBioMedicine.

Il test è validato su più di 1000 pazienti e analizza l’RNA di 27 geni.

L’esame genomico permette attraverso un punteggio di stabilire la prognosi, cioè la possibilità di sopravvivenza prima ancora dell’intervento chirurgico e la risposta alle cure della patologia, con la totale scomparsa di qualunque cellula tumorale.
Tra i vantaggi, quindi, la possibilità di individuare con certezza il tipo di terapia, o troppo aggressiva e tossica o al contrario troppo blanda per le forme più aggressive di tumore, e di conseguenza un risparmio per il sistema sanitario, perché evitate, così, cure sbagliate.

In Italia, circa il 15% delle donne malate di tumore al seno è caratterizzato dalla presenza della proteina HER2.
Infatti, la crescita rapida e incontrollata delle cellule malate è dovuta alla stimolazione del recettore HER2.

Tra le forme di tumore alla mammella, questa è una delle più aggressive e in passato, mancando cure efficaci, spesso la prognosi era delle più negative.
Oggi grazie all’uso degli anticorpi monoclonali come il trastuzumab, di farmaci citotossici come il trastuzumab emtansine o di inibitori chinasici, la prognosi è molto migliorata.

HER2+: i parametri degli oncologi

Nello stabilire la diagnosi e la prognosi della malattia, gli oncologi fanno riferimento alle dimensioni del tumore, alla presenza di linfonodi ascellari e recettori ormonali. Parametri utili, ma non sufficienti a stabilire con certezza l’efficacia o meno della cura.

Infatti, alcune pazienti rischiamo di essere curate con trattamenti inadeguati, troppo leggeri o troppo aggressivi rispetto alla reale necessità.

L’HER2DX ha il merito di colmare questa lacuna clinica.
Il test analizza 27 geni, che regolano quattro vie metaboliche funzionali allo sviluppo del tumore:

  • L’espressione di HER2+
  • La stimolazione endocrina (ormoni)
  • La proliferazione cellulare
  • La via immunologica (reazione del sistema immunitario)

L’analisi di questi geni, oltre ai fattori tradizionali, è utile sia nel determinare la prognosi, cioè la sopravvivenza a quanti anni dopo l’intervento, sia il tipo di risposta patologica delle donne sottoposte a terapia medica o chemioterapia prima dell’operazione (terapia neoadiuvante).

La terapia neoadiuvante è il tipo di trattamento raccomandato alle donne con tumore HER2 positivo di almeno 2 cm o con dimensioni inferiori, ma con linfonodi ascellari evidenti.

«Negli ultimi 10 anni sono stati fatti grandi progressi nel trattamento dei tumori HER2+ ed oggi la maggioranza delle pazienti è guarita con trattamenti adiuvanti che comprendono chemioterapia e farmaci antiHER2. – sostiene Pierfranco Conte, coautore dello studio -. L’efficacia e la varietà delle terapie oggi disponibili, fa si però che vi è il rischio di un sovratrattamento per molte pazienti e di un sottotrattamento per altre. Il problema è che le decisioni terapeutiche critiche, come la quantità o il tipo di chemioterapia e la quantità o la durata del trattamento HER2, sinora non hanno tenuto conto dell’eterogeneità biologica della malattia»

La ricerca conferma quanto la cura debba essere personalizzata, data l’eterogeneità del cancro al seno HER2+ e la diversa risposta della donna ai trattamenti e alla possibilità di recidive.

Linfociti e cancro metastatico al seno: la storia di Judy

Judy Perkins, oggi 55 anni, è la prima donna “guarita” da cancro al seno metastatico con l’immunoterapia: infatti grazie all’uso di linfociti infiltranti, il cancro da cui era affetta, è scomparso ormai da 5 anni.

Lo studio avviato nel 2018 è stato pubblicato sulla rivista Nature Medicine, sotto il controllo del National Cancer Institute e conferma quanto l’immunoterapia possa essere la reale possibilità nella cura di certi tipi di cancro.

Immunoterapia: i linfociti stimolano il sistema immunitario


Si parla sempre più spesso, infatti, di immunoterapia e le buone notizie arrivano dall’America, dove per la prima volta una donna affetta da una grave forma di tumore metastatico, ormai definita dai medici in fase off-therapy, è stata curata mediante i suoi linfociti.
 
La ricerca è basata sull’individuare le mutazioni tumorali riconosciute dal sistema immunitario.
Il nuovo approccio prende in considerazione le mutazioni e non il singolo tumore, così da essere applicato anche ad altre forme di neoplasie.
La strategia terapeutica si basa sul trasferimento adottivo di cellule T (Adoptive Cell Trasfer), precedentemente utilizzata con successo nel melanoma.

Linfociti infiltranti il tumore: come si ottengono?

I malati di cancro possiedono cellule T in grado di combattere le cellule tumorali, ma può accadere che non siano numericamente forti.
Dal caso di Judy, i ricercatori sono giunti alla conclusione che osservando il sistema immunitario fosse possibile identificare le cellule capaci di riconoscere il tumore.

In particolare, i linfociti infiltranti sono prelevati dal sangue del paziente e fatti replicare miliardi di volte in laboratorio e poi rinfusi nel corpo del malato.

Nel frattempo, la persona affetta da cancro è sottoposta a trattamento di riduzione dei linfociti restanti e a terapia con pembrolizumab per non rischiare l’inattività delle cellule reinfuse.

Cosa hanno fatto i ricercatori con i linfociti di Judy?

Nel caso di Judy Perkins, i ricercatori, sequenziando il DNA e l’RNA del tessuto malato e sano della paziente, hanno individuato ben 62 diverse mutazioni nel tessuto tumorale.

In seguito, sono stati selezionati e testati i linfociti infiltranti TIL della paziente.
Tra di essi sono stati individuati quelli in grado di riconoscere la versione mutata di 4 proteine, prelevati e sottoposti a espansione per essere reimmessi nel corpo della donna.

Oggi Judy è viva, conduce una vita sana, svolge controlli annuali ed è in attesa del traguardo dei 10 anni, i medici le hanno detto che la “libereranno” dopo questa data.

In conclusione, l’immunoterapia e l’attivivazione della risposta del sistema immunitario appare come una possibilità concreta nel controllare e curare diverse forme di neoplasie.

Cancro e rapporto di coppia

Un evento tragico come la diagnosi di cancro al seno coinvolge non solo la persona che vive la malattia, ma anche i caregiver, il compagno o marito e in primis il rapporto di coppia.
Sull’equilibrio della coppia influiscono diverse variabili che si innestano con la malattia, per esempio il cambiamento dei ruoli: spesso sono le donne che si occupano dell’organizzazione pratica della casa, della famiglia e la malattia interrompe questa normalità.
La donna difficilmente accetta di affidarsi al proprio compagno o marito nella  gestione della quotidianità anche se stanca e provata dal cancro.

Malattia, rapporto di coppia e sessualità

La malattia e le terapie mettono in discussione anche il rapporto con il proprio corpo, debilitato, mutilato, dimagrito e spento.
È frequente dopo l’operazione e se si è sottoposte alla chemio, che la donna non riesca a vedere il proprio corpo come strumento di piacere.
Nonostante gli interventi siano oggi mini invasivi o comunque conservativi, la donna deve imparare ad accettare e gestire il cambiamento fisico e psicologico.
La perdita di interesse per la sessualità e i problemi nella vita di coppia sono conseguenza dell’ansia, della paura e della tensione verso la guarigione.

Sul desiderio sessuale vanno poi a influire: la mutilazione, il linfodema e quindi il gonfiore, i sintomi della menopausa, come la secchezza vaginale, la perdita della libido e le conseguenze sull’aspetto fisico della chemioterapia, come la perdita di capelli, il pallore, e la nausea.


Cosa fare?

Intanto, la perdita della libido è una cosa temporanea come temporanei sono gli effetti collaterali della terapia.
Il momento potrebbe essere l’occasione per rileggere in chiave nuova il rapporto di coppia: parlare di sesso, delle proprie paure apertamente con il partner è crescita costruttiva del rapporto.
Bisogna darsi, anzi “donarsi” del tempo per prendere gradualmente fiducia in sé stesse e interesse per la vita sessuale. Inoltre, rivolgersi a un sessuologo o un terapista di coppia può essere un aiuto concreto nella ripresa.

In seno alla salute: prevenzione la parola d’ordine

In seno alla salute è la campagna ideata dal Ministero della salute in collaborazione con le breast Unit delle Università di Tor vergata e Modena e Reggio Emilia per promuovere la prevenzione.

Il programma vuole fornire alle donne in età fertile sia informazioni sulla salute riproduttiva e sull’infertilità determinata dal cancro al seno sia la possibilità di effettuare un consulto medico telefonico gratuito.

Nelle breast unit sono coinvolti specialisti di diverse discipline: curare il cancro significa inserire la patologia in un quadro multidisciplinare.
Il progetto è incentrato sul cancro al seno, la patologia più diffusa tra le donne, i dati, infatti, ci dicono che circa il 30,3%  delle forme tumorali femminili è al seno appunto.
Dalla fine degli anni  90 si  osserva una generale diminuzione della mortalità, legata al successo della diagnostica e delle terapie personalizzate.
In seno alla salute rientra nei programmi volti a diffondere maggiori informazioni sul cancro e a promuovere i programmi di screening, così determinanti, prima che la situazione diventi irreparabile.
Tramite la compilazione di un questionario anamnestico, la paziente è riconosciuta o meno come soggetto a rischio.

Uno specialista, in seguito all’analisi dei dati, consulta la paziente a telefono e se lo ritiene necessario può prescrivere ulteriori accertamenti.

Ottobre: il mese della prevenzione

L’Ottobre Rosa è il movimento nato per sensibilizzare le donne sul valore della prevenzione: primaria, ovvero modificare quei comportamenti considerati ad alto rischio e secondaria, aderire ai programmi di screening e diagnosi precoce per monitorare con costanza il proprio stato di salute.
Incrementare l’adesione ai programmi di screening, comunicare misure come l’autopalpazione e chiarire i dubbi riguardanti la possibilità di concepire anche con un tumore al seno sono tutte misure volte a prevenire l’insorgenza della malattia e a convivere con la diagnosi.

Gli obiettivi di In seno alla salute sono proprio questi, l’iniziativa punta al raggiungimento degli standard in linea con il piano di azione globale dell’Oms per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili.

Il trattamento delle neoplasie mammarie dei tumori ginecologici

Lanciano, 14 ottobre

L’incontro, in presenza, vuole essere un confronto sulle conquiste e i limiti della ricerca scientifica e medica sulle neoplasie mammarie e ginecologiche.
Il dibattito approfondisce alcune tematiche legate al carcinoma mammario HER2 Overexpressing e Triplo negativo e sul carcinoma mammario metastatico HR+/HER2-, analizzando in particolare la genetica medica e la gestione delle tossicità e i meccanismi di resistenza.
I partecipanti si soffermano, inoltre, sul carcinoma ovarico e dell’endometrio e le ultime terapie: dai molecolari, agli inibitori PARP al platino.


Cancro al seno ed esposizione solare: 5 consigli utili

Il desiderio di esporsi al sole al mare è comune anche alle donne operate di cancro al seno.
Desiderose di lenire non solo le ferite fisiche, ma anche quelle psicologiche, cercando in gesti semplici il ritorno alla normalità e al proprio essere donna.

In caso di cancro o operazione al seno, come godersi i raggi solari e fare un bagno in tutta sicurezza?

Ce lo spiega nel dettaglio il Professor Giuseppe Petrella, oncologo e docente ordinario di Chirurgia generale presso l’Università Tor Vergata di Roma, attraverso una guida in 5 punti:

  • Aspettare almeno 6 mesi


La qualità delle cicatrici post intervento è migliorata moltissimo, grazie alle suture intradermiche e punti che si assorbono da soli; ma è comunque consigliabile aspettare qualche mese proprio perché la cicatrice può diventare ipertrofica e irritarsi ulteriormente.

  • Protezione solare molto alta e indossare indumenti protettivi

In realtà, trascorsi già sei mesi dall’operazione, non c’è necessità di indossare indumenti protettivi, ma una protezione solare molto alta, con SPF superiore a 50.

  • Ora di esposizione

In tal caso vale il discorso generale di non esporsi nelle ore più calde della giornata, quindi prediligere o le prime ore del mattino o dopo le 5 del pomeriggio.
Inoltre, il cielo nuvoloso può essere ingannevole: va ricordato che la copertura nuvolosa è in grado di attenuare appena il 10% dei raggi ultra-violetti.

  • Nuotare fa benissimo

Una bella nuotata è rigenerante e consigliata per le donne che con l’operazione hanno subito lo svuotamento ascellare, perché evita l’accumulo di liquidi.

  • Cautela in caso di chemioterapia e radioterapia

I farmaci chemioterapici aumentano la fotosensibilità della pelle e l’abbassamento delle difese immunitarie e ciò può generare conseguenze anche gravi.

In caso di radioterapia è meglio aspettare almeno un anno prima dell’esposizione a causa delle radiodermiti, delle teleangectasie e di tutta una serie di complicanze che possono provocare problemi molto gravi. Il consiglio è quello di attendere il tempo necessario al recupero del proprio organismo e comunque portare sempre con sé un ombrellone, crema solare con protezione alta, t-shirt, foulard e cappelli.

In caso di intervento al seno è fondamentale attenersi alle indicazioni del proprio oncologo, circa le precauzioni da assumere e la durata dell’esposizione.

Il Trattamento dei tumori luminali della mammella: nuove prospettive

Aggiornamenti in Oncologia. Il Trattamento dei tumori luminali della mammella, stato dell’arte e prospettive future” è l’iniziativa della Fondazione FatebeneFratelli in programma il 15 giugno prossimo.
Il dibattitto, che coinvolge molti specialisti del settore, si sofferma sulle terapie mediche per i tumori luminali alla mammella in tutte le fasi della malattia.
Gli scenari di trattamento sono in continua evoluzione e in particolare la disponibilità dei test genomici e l’uso di nuovi farmaci hanno cambiato l’approccio terapeutico al tumore alla mammella, che rimane ancora oggi il più diffuso tra le donne.
I progressi mirano a una progressiva riduzione del ricorso alla chemioterapia in tutti gli stadi di sviluppo della malattia.


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